La nostra Costituzione, così strenuamente difesa da tutto l'arco politico e addirittura ridotta a feticcio da parte di taluni esponenti del medesimo, attribuisce con chiarezza cristallina diritti politici attivi e passivi ai cittadini. Diritti imprescindibili, in quanto determinanti per il funzionamento corretto e legittimo della nostra democrazia. L'interpretazione autentica e la conseguente corretta applicazione dei principi costituzionali inerenti al diritto di voto non lasciano spazio a dubbi: il diritto di voto è garantito a tutela dei cittadini, non di una metafisica entità statale che ne concede la fruizione. Siamo una Repubblica parlamentare, non una monarchia più o meno illuminata nella quale al re abbiamo sostituito il testo costituzionale con annessi e connessi: è la Costituzione al servizio del cittadino, non il contrario. Il dilemma - che forse poi tale non è a ben guardare - che pone l'attuale situazione di Lazio e Lombardia riguardo alle imminenti elezioni regionali è il seguente: criteri rigidamente formali inerenti all'ammissibilità di due liste possono prevalere e, di fatto, inficiare completamente un diritto soggettivo costituzionalmente garantito? Assodato che l'esatto svolgimento degli eventi nonché la reale entità delle mancanze formali che hanno generato la sconfortante situazione non è ancora ben chiara, tanto è vero che è ancora al vaglio degli organi competenti, è ammissibile che un governo si renda omissivamente responsabile di un gravissimo pregiudizio alla libertà del cittadino? No. Non in uno Stato realmente democratico. Non in uno Stato che ha realmente a cuore gli interessi non di un candidato, di una lista o di uno specifico schieramento politico, bensì di un diritto politico che, qualora non venisse tutelato, si ridurrebbe a semplice «diritto di carta»: un non-diritto, privo di qualunque consistenza, privo di qualunque efficacia. Qualcuno potrebbe obbiettare che un approccio al problema di questo tipo, basato sulla prevalenza del diritto sostanziale sul «diritto formale», chiamiamolo così per semplicità, denoterebbe un'aderenza eccessiva al giusnaturalismo, che, purtroppo, poco o punto spazio trova in un sistema come il nostro, ancorato alla civil law. Allo stesso modo, poiché da lungo tempo abbiamo superato le rigide pregiudiziali giuspositiviste, le quali imponevano graniticamente la prevalenza dello ius positum, anche a scapito dell'elementare buon senso (giuridicamente inteso), fino a teorizzare, con Hans Kelsen, la legittimità dello «Stato di banditi» (dai nazisti in su, per capirci...), oggi dovremmo chiederci, in tutta serenità, quale legittimità avrebbe una amministrazione regionale che non sia figlia del confronto apertamente democratico. Pregiudicare il diritto di milioni di italiani che di fatto si troverebbero di fronte ad elezioni con le urne preventivamente riempite in quanto impossibilitati ad esprimere una preferenza per un blando intoppo procedurale, in quale astruso modo può essere considerato esercizio di democrazia o, più algidamente parlando, rispetto della legge? Come potremmo ancora parlare di «rappresentatività»? Quanto varrebbe in un contesto di tal fatta il «mandato popolare»? E' legittimo pensare che ponderazioni di questo genere, volte a preservare non solo l'aderenza pedissequa alla legge, ma, attraverso la corretta interpretazione della medesima, anche a tenere conto di imprescindibili considerazioni teleologiche, abbiano determinato la decisione del presidente della Repubblica di firmare un decreto che non è legittimo, in alcun modo, chiamare «salva lista». Al limite «salva democrazia». Un decreto che sancisce in una qualche misura la differenza tra una democrazia formale ed una sostanziale. Francesco Natale
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lunedì 8 marzo 2010
LA TUTELA DEL DIRITTO DI VOTO
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